Ambiente

I problemi ambientali sul Carso: la pesante eredità italiana al TLT

In cinquant’anni di amministrazione italiana, ancorché surrettizia, il Carso ha subìto un inquinamento perpetuato sistematicamente con la realizzazione di vere e proprie discariche anche in ambienti faunistici molto peculiari, dall’equilibrio sottile e delicato. E’ il caso delle doline che, pur presentando caratteristiche florali uniche nel loro genere – presentano infatti un vero e proprio microclima con un particolare fenomeno di inversione termica per cui la temperatura può variare fino a 1*C per ogni 14 metri di profondità – sono state riempite di immondizia, sicché livellate al punto da formare distese lunghe quanto un campo da calcio, celando nel sottosuolo vere e proprie tombe di rifiuti.

E’ vero che sul Carso venne occultato e smaltito di tutto: dai semplici RSU (rifiuti solidi urbani), ai liquidi provenienti dal lavaggio delle petroliere, sino ad arrivare a rifiuti tossico-nocivi e addirittura radioattivi, provenienti anche da ambienti esterni a quello cittadino. La maggior parte delle discariche insediate sul territorio risale al periodo che va dall’inizio dell’amministrazione fiduciaria italiana su Trieste, quindi dal 1954, sino a più o meno il 1975: a questo periodo è ascrivibile la realizzazione delle discariche maggiori per capienza, in particolare quella della Valle delle Noghere (Attuale zona industriale di Muggia) e quella sul Carso, a ridosso di Trebiciano, che ha accolto una quantità di rifiuti stimata a più di 800.000 metri cubi. A peggiorare ulteriormente la situazione vi è che, a 329 m di profondità, scorre il fiume sotterraneo Timavo, che passando proprio al di sotto della discarica ne ha assorbito negli anni gli inquinanti, in particolar modo idrocarburi e solventi. Non mancano segnalazioni, anche da parte dell’utenza, di inquinanti presenti nel fiume, come nel caso di un gruppo di speleologi che già nel lontano 1974 (quindi ben prima che la consapevolezza e la sensibilità ambientale fossero generalmente riconosciute e tenute conto), durante una visita presso l’Abisso di Trebiciano (molto vicino alla discarica), segnalava al Piccolo la presenza di sostanze inquinanti nel fiume che scorre lì sotto.

Tratto da Il Piccolo del 3 dicembre 1974.







Ciò a dimostrazione della pressoché totale responsabilità della politica di fronte al disastro ambientale di Trieste e non – come spesso si sente dire – della generale mancanza di responsabilità ambientale tipica di quegli anni: non solo la politica ma, come vediamo, anche tanti cittadini erano perfettamente consapevoli dei danni che questo tipo di smaltimento illecito comportava. Tant’è vero che pochi giorni dopo la suddetta segnalazione, precisamente l’11 dicembre, il consigliere Franzutti (PLI) presentò un’interrogazione al sindaco circa il problema dell’inquinamento dell’acqua del Timavo, ponendo però in risalto non tanto l’effettivo problema di inquinamento, quanto il fatto che gli speleologi fossero entrati nella grotta (nell’Abisso di Trebiciano) senza la dovuta autorizzazione e che l’entrata non fosse preclusa, al fine di « garantire, in una zona priva di sorveglianza, la sicurezza del nostro acquedotto »:

Tratto da Il Piccolo dell’11 dicembre 1974.

La discarica radioattiva di Santa Croce

Le attività di smaltimento illecito di rifiuti sul Carso e dintorni continuarono, seppur in maniera leggermente ridotta a causa delle nuove e più strette regolamentazioni (specialmente comunitarie) per tutti gli anni Ottanta e Novanta, l’ultima grande discarica fu infatti la discarica Acquario, ultimata nel 1998. A questo « secondo periodo » è da inquadrare anche la discarica di S. Croce, famosa per il sospetto, assolutamente fondato, di contenere nel suo grembo anche rifiuti radioattivi. La discarica ha operato per circa una decina d’anni, dagli inizi degli anni Ottanta sino al 1995 – anche se da un articolo del Piccolo datato 1988 ci risulta che già allora fosse satura – ed era gestita dalla società Ecormed, la quale risulta fallita dal 1996, quando rimase intortata nel processo del petrolchimico di Marghera. La società, pur avendo sede a Trieste, operava anche nel Veneto e in altre zone dell’Italia settentrionale. Attorno alla Ecormed – che si presentava esteriormente come una semplice azienda di stoccaggio e riciclaggio di rifiuti – si estendeva un fitto intreccio di società e di personaggi, uno dei quali, tale Antoine Makdessì, riciclava rifiuti tossici e finì assassinato a Parigi nel 1990.

Nell’estate del 1998 la combattiva sezione di Trieste dell’associazione Amici della Terra si interessò del caso di S. Croce, avendo notato sulle vecchie cartine topografiche la presenza di una cava che non risultava più dalle cartine nuove. Una volta sul posto accertarono l’effettivo riempimento della vecchia cava, rilevando inoltre presenza di radioattività superiore dal 20 al 30 per cento rispetto al terreno circostante.

Tratto da Il Piccolo dell’8 settembre 1998.

Gli AdT continuarono le loro indagini, venendo assistiti nel 2001 anche dal Dipartimento di Geofisica dell’Università di Trieste che con l’utilizzo di sistemi non invasivi quali georadar, magnetometria, la riflessione sismica, riuscirono a stabilire la presenza di masse metalliche (probabilmente fusti) seppellite a varie profondità. Nonostante numerose denunce, che videro l’intervento dei carabinieri di Aurisina sin dal 1988, la situazione rimane ad oggi invariata, con la discarica ancora lì, al pieno del suo potenziale inquinante, in attesa di futura a alquanto improbabile bonifica.

Tratto da Il Piccolo del 25 ottobre 2002.

 

L’ambiente ipogeo

Anche le grotte – di cui il Carso è ricchissimo – non sono state esentate dall’utilizzo come scaricatoio, specialmente per liquami industriali e idrocarburi. Le più note sono la caverna presso la VG17 – che fu utilizzata, nell’ambito della discarica di Trebiciano, per scaricarvi morchie e residui di idrocarburi -, il Pozzo dei Colombi di Basovizza (42/33VG) – dove fu scaricato il greggio rimasto a seguito degli attentati al SIOT del 1972 – e il cosiddetto Pozzo del Cristo (3842 VG), un pozzo verticale che risultava pieno zeppo di idrocarburi, anche se negli anni permearono nel terreno portando il livello del « lago » ad abbassarsi notevolmente.

Bisogna però considerare che spesso nelle grotte adibite a discarica, quando la capienza delle stesse veniva saturata, si faceva saltare gli ingressi al fine di non permettere sguardi indiscreti – da ciò è ragionevole supporre che anche l’ambiente ipogeo sia molto compromesso dal suo improprio utilizzo come discarica: un rapporto del 2010 parla di più di 300 grotte inquinate sul Carso. Un ipotetico recupero e bonifica delle stesse risultano altresì complicatissimi, viste le difficili condizioni in cui si dovrebbe lavorare e tenendo conto della tipologia di rifiuti presenti, molti dei quali sono estremamente dannosi per l’ambiente ipogeo: nei casi dove fossero presenti idrocarburi, le grotte risultano danneggiate in maniera praticamente irreversibile.

Interno della grotta presso VG 17, conosciuta come “degli idrocarburi” di Trebiciano (foto TriesteLiberAmbiente).
Interno del “Pozzo dei Colombi” di Basovizza (Foto Club Alpinistico Triestino).
Operazioni di scarico nella “Grotta del Cristo” di Basovizza (Foto Catasto Storico).

 

 


Note

Per approfondimenti segnaliamo l’ottimo libro di Roberto Giurastante Tracce dl legalità, il quale tratta in maniera più che esaustiva i problemi ambientali del TLT, presentando il fitto intreccio tra stato, amministrazioni locali e mafie nazionali in maniera lampante.