Operazione Delfino

Continuare sempre più intensa l’azione della stampa a favore della controinsorgenza per mantenere vivo e palpitante il sentimento patriottico e stimolare gli elementi dubbiosi.
Continuare ad insistere con articoli adatti a far risultare la evidente differenza del tenore di vita fra Est e Ovest.
In ricorrenza di date storiche ed avvenimenti, sfruttare al massimo i sentimenti patriottici,organizzando commemorazioni, raduni, escursioni, cortei, manifestazioni, ecc. mobilitando allo scopo tutte le associazioni, società e simili idonei a fare tali azioni. In particolare agire più intensamente possibile nell’ambiente studentesco. Insistere nella dimostrazione con tutti i mezzi a disposizione della inconsistenza e infondatezza delle pretese jugoslave sul territorio di Trieste.
Continua azione di smascheramento dei fini occulti delle azioni camuffate dell’insorgenza.
Scritte murali di contingenza.
Organizzazione di contromanifestazioni. Continuano, intensificate, tutte le azioni programmate nella I fase.

Parte del programma dell'”operazione Delfino”

Con la fine delle ostilità, iniziò a operare in Italia una fitta serie di organizzazioni paramilitari proletarie sotterranee – che rispondevano in maniera più o meno celata alle direttive del Partito Comunista Italiano -, il cui scopo era di “prepararsi per la rivoluzione”. Circa l’organico, la preparazione e gli armamenti non risultano molte informazioni, ma si sa per certo che si trattava di organizzazioni “popolari”, formate soprattutto da elementi proletari e contadini che si erano in qualche modo organizzati. L’esistenza della cosiddetta “Gladio rossa” traspare da alcune anomalie, come la presenza di grosse quantità di armi nascoste in zone rurali e agricole come fienili, campi o stalle, provenienti soprattutto da paesi dell’Est. Un’informativa contenente 507 nomi di presunti appartenenti alla “Gladio rossa” venne preparata dai servizi segreti all’inizio degli anni Settanta e consegnata alla Magistratura nel ‘92, tra i quali spiccavano due dirigenti periferici di partito triestini.  

L’organizzazione paramilitare del PCI – comunemente nota come “apparato” – venne descritta in un dossier degli anni Novanta come “un’organizzazione paramilitare nemica occulta permanentemente dislocata nel territorio dello Stato italiano”. L’esistenza di questo apparato venne confermata indirettamente anche dall’ex segretario del PCI triestino Rodolfo Ursic, il quale asserì che all’interno della sede del Partito comunista triestino vi era un apparato speciale dedito soprattutto ad attività spionistiche. 

Proprio contro la sede del PCI triestino era predisposto un piano di assalto segreto(che comprendeva anche il lancio di otto bombe), a firma dall’organizzazione “Stay Behind”, comunemente nota come GLADIO, che consisteva in un programma di insorgenza-controinsorgenza da svolgere al confine con la Jugoslavia, supponendo che una qualche turbolenza a Trieste avrebbe potuto favorire un intervento dall’Est. L’operazione “Delfino” si svolse tra il 15 e il 28 aprile del ‘66, proprio in concomitanza con le massicce proteste per la chiusura del cantiere S. Marco, di cui rimandiamo all’articolo. La simulazione comprendeva l’attivazione dei “gruppi di controinsorgenza” per schedare gli avversari, nonché il possibile intervento della “Special force” USA, ipotizzando che la Jugoslavia alimentasse direttamente gli insorti. Falco Accame, ex presidente della Commissione difesa della Camera, rivelò negli anni Novanta che operazioni analoghe si svolsero nell’”anno primo” – il 1965 – concentrandosi però più su infrastrutture ferroviarie e caserme, mentre per l’”operazione Delfino” precisò che “l’attacco alla sede del PCI triestino avrebbe potuto considerarsi legittimo nel momento in cui via Capitolina fosse stata identificata quale centrale di comando, coordinamento e comunicazioni del gruppo direttivo dell’attività di insorgenza che la Gladio avrebbe dovuto contrastare.”

I presupposti per tale operazione si stavano realizzando da anni, con tutta la posta proveniente da Est che veniva setacciata in cerca di “indizi”. Ad ogni treno mattutino proveniente da Lubiana, la posta veniva smistata presso l’ufficio di “Arrivi – Distribuzione” e tutte le missive provenienti specialmente da Mosca, Sofia e Budapest venivano “prelevate” da un maresciallo di polizia che le portava in questura, dove i sigilli venivano aperti con la macchina a vapore. Qui rimanevano anche una giornata intera, tant’è che spesso venivano timbrata con la data del giorno seguente, dopo un “vuoto” di ventiquattr’ore. Questo avveniva senza alcuna autorizzazione o disposizione scritta, il che per un paese “democratico” è certamente singolare (oltreché illegale).


Note

Il materiale per questo articolo è stato tratto dal capitolo “L’assalto dei cospiratori del PCI” del libro Passaggio a Nordest di Silvio Maranzana. La citazione iniziale è tratta dal testo della simulazione dell’Operazione Delfino divulgata da Agorà (a cura di Roberto Cicciomessere) in data 11 dicembre 1991.

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