L’uomo astorico

L’assimilazione pressoché totale da parte dell’uomo-massa degli imperativi proposti dal potere dominante può essere spiegata anche utilizzando una dialettica temporale, legata all’andamento della storia. Se nella lunga epoca pagana era l’uomo colui che deteneva le redini della storia – in una prospettiva volontaristica e indeterministica – le cose cambiarono con la tradizione giudaico-cristiana che, essendo appunto una forma di spiritualità sacerdotale e religiosa, intendeva la creazione in una prospettiva escatologico-soteriologica, in attesa di essere definitivamente « redenta » dal Dio unico ipostatizzato. Cadute ambedue le visioni, si iniziò quasi una sorta di rinascenza dell’idea pagana, ma in forma caduca e puramente materialistica: è l’idolatria dello scientismo assoluto, della macchina, del multiverso informatico e via dicendo. Questo in ambito quasi « metafisico » nel senso più filosofico del termine, poiché la realtà virtuale è per definizione di là dal fisico, intesa quasi come rifugio, paradiso artificiale, oasi dell’uomo-massa mercificato, sfruttato e mentalmente disadattato nel mondo reale. Proprio in questo è il punto: che cosa sia rimasto dell’uomo, al di fuori della finzione virtuale, nel mondo reale. Si può ben dire che dell’uomo, giunto all’estremo nichilistico, c’è rimasto ben poco. Per approfondire ci rifacciamo al nostro articolo sulla dissoluzione dell’Io, volendo qui focalizzarci non tanto sulle cause, quanto sugli effetti che il suddetto nichilismo ha portato.

L’effetto immediato, per quanto a volte poco evidente, è l’apparente astoricità del tempo presente: l’uomo-massa non è l’uomo storico, ma vive nell’antistoria, soggiace al presente assolutizzato ed immutabile. L’uomo non più individuato, ma inteso come incarnazione o personificazione della massa amorfa, si accosta a ciò che gli appare saldo, sicuro, granitico, al fine di esorcizzare la paura, altro elemento abitualmente usato dall’egemonia dominante per legittimare e confermare il proprio potere. L’assolutizzazione del presente è da intendere alla stregua di un riflesso condizionato pavloviano, in risposta alla paura dell’ignoto che il nichilismo (dal latino nihil=niente) offre: paura che l’uomo-massa è incapace di dominare, che lo soggioga nell’intimo, perché a volte gli mostra, quasi come in visione, la sua reale situazione di schiavo inconsapevole. Da ciò l’astoricità, intesa come corrente che trasporta tutto con sé, a cui è impossibile opporre resistenza, che dimostra l’impotenza dell’uomo dinanzi al potere distruttivo dell’entropia, cioè di quell’oscura potenza che porta un ordine stabilito a crollare, gli oggetti a scomporsi col tempo, come anche la psiche a dualizzarsi – questo è, nella mente dell’uomo-massa, deterministico, già « scritto », determinato dal fato impietoso. Tale ragionamento si ritrova oggi praticamente dappertutto. Pensiamo, qui, alla politica: all’italiano medio – che ormai rappresenta la quasi totalità – il voto è perfettamente inutile, giacché nulla può cambiare, la corruzione impera invitta come ha sempre fatto, e al singolo non spetta che il modo dello stolto biblico, il quale esclama: « mangiamo e beviamo, perché domani moriremo ». È l’antico postulato latino del Panem et circenses (Pane e divertimenti), atto a mantenere il popolo buono e obbediente: se lo stato elargisce più o meno a tutti uno standard accettabile, il demos non si ribellerà mai, qualsiasi cosa lo stato faccia. La validità di questo può essere facilmente osservata da chiunque…

Uscire da quest’incantesimo è altresì abbastanza semplice: è sufficiente prendere coscienza del divenire come fatto storicamente appurato, nella vita di ognuno di noi. D’altro canto, chi non si sia destato per tempo dallo stato anzidetto, è stato sicuramente destato dal recente evento del Covid che, indipendentemente dalle oscure dinamiche ad esso associate, è stato indubbiamente un qualcosa di globale, il « meridiano zero » dell’uomo-massa. Prima esisteva davvero il pericolo che la sensazione dell’antistoria prendesse il sopravvento: dopo l’1989 con il crollo dei comunismi, infatti, qual è stato un altro evento degno di nota? Praticamente nessuno. Certamente, il crollo delle Torri gemelle, il terrorismo internazionale, la morte di Gheddafi ecc. sono stati tutti eventi importanti, ma nessuno realmente tale da scalfire indelebilmente l’animo dell’uomo postmoderno. Un essere ossessionato dalla velocità e dalla globalità delle esperienze necessitava evidentemente di qualcosa d’altro – qualcosa, che potesse inglobare con la sua potenza dissolutrice anche gli « appigli » – quantomai immaginari – a cui l’uomo-massa abitualmente si rivolgeva e che in definitiva lo mantenevano in piedi, quantunque alla meno peggio. Crollati pure questi, ecco il risveglio, la consapevolezza del tempo presente, dell’epoca storica in atto e in attuale sviluppo, l’importanza operativa dell’azione del singolo ecc. – tutte cose in precedenza eclissate dal pupazzo ideocratico del presente assolutizzato. Il ritorno ad una concezione della vita per così dire normale, nella sua imperscrutabilità ed inadempienza nell’atto, che riporta l’uomo a se stesso, disilludendolo dall’infatuazione tecnocratica e dogmatizzata per cui, nell’era della macchina, il futuro è già « tracciato » in maniera impersonale, dominato dal potere immenso che il macchinario ha nel piegare la natura a suo piacimento, sì da esprimere indirettamente la volontà dell’uomo – è il ritorno dell’antropocentrismo in senso buono, cioè dell’uomo come principale attore e spettatore nell’interminabile scena della storia, che non cala mai il sipario. Sta ad esso – e solo ad esso – scegliere se essere l’attore attivo o lo spettatore passivo della tragedia: ambedue le condizioni presentano tratti interessanti e non meritano di essere disdegnate.

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