Delineare, per quanto sommariamente, la causa della dissoluzione dell’individuo e la sua progressiva conformazione a ciò che venne chiamata “società dei consumi” richiederebbe un’analisi molto approfondita dello sviluppo in caduta subìto dal genere umano nel corso della storia, sviluppo che sta portando i suoi frutti più drammatici nei termini della massificazione, della conformazione e della fine dell’individualità visibili oggi. Qui ci limiteremo a qualche breve accenno, che chi vuole può sviluppare.
Il fondamento dell’egemonia materialista moderna consiste nella mancanza di una reciproca risposta da parte di tutto ciò che dovrebbe, per qualità spirituale e levatura morale, rappresentarne una efficace resistenza. Si sa che il dominio dell’uomo mediocre e impacciato può sussisere solo laddove non vi siano più uomini che abbiano valenza superiore, cioè coloro dai quali tradizionalmente l’uomo mediocre fu sempre dipendente, in un rapporto non commutativo: il superiore fu sempre indipendente dall’inferiore e mai viceversa. La differenza principale consiste nel fatto che il primo è individuo autosussistente, lo Svegliato, colui che “conosce se stesso”, mentre il secondo è un essere dall’identità indefinita, scevro del rapporto con il trascendente, in balìa delle forze più elementari che lo determinano senza trovare resistenza – è il tipo di uomo con cui abbiamo a che fare oggi abitualmente nella società dei consumi.
Il semplice monito oracolare di Delfi – “Conosci te stesso” – designa magnificamente tutto ciò: l’Io che si interroga sull’Io e genera così autoconoscenza, la quale genera a sua volta autocoscienza; questa fu la base tradizionale dell’iniziazione, con la quale l’individuo diventava ontologicamente differente rispetto alla plebe cieca e sorda, incapace di intendere i Misteri. L’essere che pone il proprio Io si tramuta in pura potenza, la cui presenza stessa è sufficiente a far soccombere qualsiasi tentativo di sovversione da parte degli appartenenti all’ordine inferiore: così tutte le rivoluzioni moderne – a cominciare da quella francese, trionfo della borghesia moralista, ipocrita ed anticristiana – non sarebbero state possibili se sul trono ci fossero stati Re spiritualmente realmente tali. Alla stessa maniera il golpe che da qualche anno a questa parte si sta tentando di imporre, con le sue visioni primitivistiche sulla sessualità, sulla morale, sull’identità stessa della civilità occidentale (la cui derivazione è per la maggior parte cristiana) perirebbe, il castello di menzogne crollerebbe come carta bagnata.
Il problema moderno dell’autoidentificazione affiora le sue radici nella stessa filosofia che pose a sua volta le basi per la scienza moderna: quella di Cartesio. Prima di Cartesio l’Occidente viveva ancora della pregressa esperienza cristiana medievale, con un sostrato di elementi presi dal paganesimo precristiano che lo stesso cattolicesimo fece propri: si basava cioè sulla visione escatologico-religiosa, identificava l’uomo agostinianamente come peccatore e faceva della tensione al trascendente il fine ultimo. Cartesio, riflettendo il Si enim fallor sum (“Se sbaglio esisto”) agostiniano in positivo, pose il fulcro dell’identificazione nel pensiero stesso, sede metafisica dell’Io, con la ben nota formula: Cogito ergo sum (“Penso dunque sono”). Proprio per la centralità del pensare, in Cartesio fu visto il primo embrione di quello che sarà poi l’idealismo.
La netta distinzione tra l’”anima” (l’ Io), che risiedeva nella Res cogitans (nel pensiero) e il “corpo”, la Res extensa, ovvero tutto ciò di non attinente alla sfera del pensiero, portò l’uomo occidentale a disdegnare il corpo, la sfera fisica, considerandolo pressappoco come guscio dell’anima: Cartesio poi ritenne addirittura di potersi pensare senza un corpo, di poter quasi eludere la sua stessa presenza fisica. Già in Aristotele, principale spunto della filosofia medievale, si delineava l’idea del corpo come “prigione”, guscio dell’anima e nella morte veniva vista la sua liberazione definitiva, ma in Cartesio questo venne estremizzato, ritenendo per “anima” il mero pensiero e non qualcosa di trascendente o immortale. Qui è il principio della nevrosi, oggi prorompente più che mai, tanto da potersi sentire “mentalmente” appartenenti al sesso opposto a quello biologico.
La filosofia originaria indo-aria, che è anche la vera visione dell’Occidente delle origini, poneva viceversa in risalto la physis, cioè l’aspetto fisico, considerando il pensiero alla stregua di energie psichiche arbitrarie e assolutamente non reali se non nella loro sfera propriamente metafisica. Un’eco di questo è visibile, al contrario di quanto spesso si pensi, anche nell’Antico Testamento, in cui lo spirito – ruach – altro non è che il Soffio, l’alito divino divificante, essendo praticamente assente la nozione di un’ “anima” immortale separata dal corpo. La vicenda cristica, poi, non lascia dubbi: Cristo risorse fisicamente presente, con corpo perfetto e incorruttibile.
Così anche nella tradizione ermetico-alchemica, il corpo – inteso come vaso, contenitore dell’anima – è centrale nella determinazione dell’Io: le “scorie” e le “ceneri”, cioè tutto ciò che è fisico, è prezioso, in quanto contiene l’anima che senza di esse uscirebbe portando alla vera morte del soggetto, cioè al suo totale annichilimento. Non mancano accenni al corpo come “prigione” dell’anima, ma che assume questa valenza negativa solamente laddove il corpo sia spurio, impuro, il metallo sia contaminato dalla ruggine – se il metallo si purifica, diventa Oro dei filosofi, che non è l’oro volgare (cioè l’oro a cui normalmente si pensa, l’oro come mero metallo), ma tuttavia si trova nell’oro volgare. Detto altrimenti: il corpo purificato è Oro pur restando sempre corpo. Anche nella dottrina cattolica permangono reminescenze di questi insegnamenti: non per ultima la concezione del corpo come “tempio” dello Spirito Santo, e nell’Eucarestia la presenza corporale reale di Gesù Cristo.
Un ultimo accenno, ora, al principale nemico del corpo, cioè a ciò che viene comunemente chiamato « morte ». E’ oramai abbastanza conosciuto, specialmente in ambiente orientalistico o new age, il postulato per il quale la morte è solo un passaggio di stato, un viaggio, non una vera fine. Tutto ciò è certamente valido, ma viene spesso malcompreso. La morte fisica è effettivamente un passaggio a uno stato di cose diverso, ed è anzi necessaria per poter realizzare appieno il potenziale dell’Io. L’esempio più lampante è quello del seme che, per poter realizzare appieno se stesso (cioè trasmutarsi in pianta), deve morire, deve cioè disintegrare il suo Io di seme per risorgere con Io nuovo, come pianta. Alla stessa maniera Cristo, che coronò la propria missione con la morte di croce, necessaria per poter poi risorgere.
La vera morte è invece quella che nella tradizione venne chiamata “seconda morte”, cioè la dissoluzione dell’individualità del trapassato nell’Ade o nello Sheol, il mondo dei morti biblico. Esso è sostanzialmente un deposito, un mondo di ombre, di residui e brandelli del precedente soggetto dalla vita infima, in attesa del suo annullamento definitivo. E’, purtroppo, la triste sorte che attende l’uomo massificato moderno che di fatto, non conoscendo il proprio Io, non esiste già in vita. A questo proposito è interessante la visione del mistico russo Guardjeff, secondo cui poche persone oggi “esistono”, hanno effettiva esistenza, ma solamente pensano di esistere: in realtà esse sono già spettri viventi, fantasmi sbalottati di qua e di là dalle correnti politiche, sportive, filosofiche predominanti. Non è molto difficile scorgere in questa descrizione il tipico uomo di oggi…
La società occidentale tutta è di fatto costituita da gente illusa di esistere, da androidi pilotati a distanza dal politicante o dal propagandiere di turno. Ecco la spiegazione della totale sottomissione a qualsiasi forma di autorità, anche assurda o dai lineamenti dittatoriali, cui abbiamo assistito negli ultimi tempi. Anche coloro che, secondo le categorie moderne, hanno “successo”, sono in realtà persone con grave ritardo nella formulazione della propria individualità: essi hanno sostituito, seppure inconsciamente, il proprio Ego al vero Io. Rincorrono, cioè, la versione idealizzata di se stessi, la propria maschera pubblica, che è in realtà assai lontana dalla loro vera natura. Il fenomeno social è in questo senso particolarmente deleterio: giovani che, accecati dal mito dell’ambizione e del successo, vendono quello che rimane di loro stessi a pubblico ludibrio, vivendo della loro maschera autoprodotta. Ma la maschera prima o poi cade ed essi si ritrovano per la prima volta soli, percepiscono la loro vacuità, si sentono “vuoti” – è l’eziologia dei fenomeni depressivi, che impennano il mercato criminale dei psicofarmaci e degli antidepressivi.
Questo è il tipo di uomo e di donna che il capitalismo liberale vuole, cioè uno schiavo, perennemente asservito al potente di turno, incapace di reagire, poiché, qualora reagisse, vedrebbe negata la sua dose di psicofarmaci; un uomo il cui unico scopo è quello di lavorare, per poi comprare, che trova unico appagamento nel consumismo più sfrenato. In definitiva, un uomo malato che si compiace della propria malattia.
Colui che, invece, conoscendo il proprio Io è l’unico possessore di se stesso si avvicina molto al concetto di divinità di sé per come veniva intesa nella paganità delle origini. Così con l’aggregazione anche di uno sparuto gruppo di individui realmente tali si attua l’elevazione in potenza delle loro intenzionalità, che diventano così un’arma potente in grado di determinare l’andamento orizzontale del futuro prossimo. Perché, guardandoci attorno, qual è il reale spessore dell’avversario? Non si scorge solamente il deserto nietzschiano che avanza? Un’orda semi-proletaria, assolutamente disordinata, in preda a forze della categoria più esecrabile, può realmente ledere l’integrità e l’intenzionalità di un vero individuo o, a maggior ragione, di un gruppo di individui?