E’ notizia di questi ultimi giorni la decisione del Governo italiano di abbandonare i progetti di cooperazione con la Repubblica Popolare Cinese intrapresi nel 2019 a seguito della firma del Memorandum Italia-Cina. Assieme a Genova, il Territorio Libero di Trieste con il suo porto franco si trova al centro dell’iniziativa Belt and Road, avendo la Cina tutti i diritti di utilizzare il porto franco internazionale, che è per definizione aperto per il libero utilizzo di tutti gli stati del mondo.
Già da principio il rinnovato interesse per la cooperazione con la Cina portò a forti preoccupazioni da parte degli stati a cui l’Italia deve direttamente rispondere delle proprie azioni: USA e Inghilterra. Se questo, che è già molto grave nel caso italiano (induce a riflettere sull’inesistente sovranità che dell’Italia sul proprio territorio), è enormemente più pernicioso per quanto riguarda Trieste, che è appunto giuridicamente al di fuori della sovranità dello stato italiano. Dal lato più “praticistico”, la relativa vicinanza del porto di Trieste con il porto greco del Pireo – dove l’azienda cinese Cosco è l’azionista di maggioranza – ha sicuramente influito, anche se in maniera secondaria, nella scelta di Trieste e del suo porto. Dal lato geopolitico, invece, Trieste è l’unico porto che può permettere realmente di inserire nel mercato occidentale uno stato come la Cina, che certamente non vanta della simpatia degli USA: e in questo consiste il fulcro del problema.
Immediatamente dopo la sigla del memorandum, si susseguirono a cascata i “rimproveri” dei principali stati occidentali sull’Italia, il primo stato del G7 e della NATO a firmare un accordo di questo tipo con la Cina. Tra i primi dissidenti nazionali si conta Giulio Camber, avvocato triestino da molti considerato il vero capo politico di Trieste, che mise in dubbio la trasparenza negli accordi tra l’autorità portuale e il CCCC (China Communication Construction Company). Forte è stata l’opposizione del commissario europeo Günther Oettinger, il quale espresse la propria contrarietà al fatto che in Italia, come in altri paesi europei, infrastrutture di importanza strategica come i porti non siano più in mano europea [leggi: americana], ma in mano cinese. Ma le obiezioni più interessanti giunsero direttamente dal console generale USA a Milano, Robert Needham, il quale ricordò come i porti di Genova e di Trieste siano chiave per le relazioni economiche tra l’Italia e gli USA: “Come alleati della Nato, con truppe presenti sulle basi italiane e con sistemi di sicurezza e d’arma condivisi, auspichiamo che l’Italia valuti attentamente i potenziali rischi economici e di sicurezza nella ricerca di partner per progetti di sviluppo nei suoi porti” (“As allies in NATO, with troops present on Italian bases and with shared security and weapons systems, we hope that Italy will carefully assess potential economic and security risks in seeking partners for development projects at its ports”). A ciò si aggiunse, nell’agosto 2020, l’inserimento della CCCC nella “lista nera” del Dipartimento del commercio americano, come “monito” per i propri alleati a non intraprendere accordi con essa.[1]
Quali sono ufficialmente i motivi di perplessità nei confronti del commercio cinese? Oltre alla ben comprovata concorrenza al mercato americano, a spaventare gli occidentali sarebbe la mancanza di chiarezza negli scopi della Belt and Road Initiative, la conduzione a senso unico (imprese cinesi con capitali cinesi), la supposta opprimente richiesta da parte della Cina di asset nazionali dei governi che non siano in grado di rimborsare i suoi generosi prestiti (cosa poi smentita dai fatti, essendo comprovato che la Cina tenti di rinegoziare i debiti piuttosto che rivalersi sugli asset); infine, la preoccupazione che la Cina voglia con quest’iniziativa controllare rotte e hub strategici (come nel caso del Pireo), di fatto sottraendoli al controllo occidentale-atlantista. [2] Nulla di strano in uno scontro tra potenze egemoni che lottano – l’una per sopravvivere, l’altra per sopraffarla.
Il problema di fondo, per noi, è il fatto che questi accordi vennero stipulati vedendo il porto franco internazionale come un porto italiano, cosa che non è.
Bisogna infatti considerare che alla Cina (come d’altronde a qualsiasi altra potenza) interessa l’utilizzo del porto per i propri scopi commerciali e vorrebbe farlo, se può, senza scomodare nessuno. La questione dell’inadempienza dell’amministrazione civile provvisoria del Governo italiano sul TLT potrebbe non venir affrontata se la Cina riuscisse per vie traverse a utilizzare il porto senza dover “scomodare” la questione della sovranità italiana su Trieste. Gli interessi di una qualsiasi superpotenza sono quasi sempre prettamente strategici ed economici, di là dalle ideologie o da qualsiasi impegno etico di sorta – tutte cose che vengono poi puntualmente sbandierate per fini propagandistici, ma che certamente non costituiscono il motore principale di una qualsiasi iniziativa (pur essendo vero che anche un’azione interessata può, a posteriori, rivelarsi portatrice di un fine etico superiore). Attendere l’arrivo di un liberatore che per mero altruismo riproponga a livello internazionale la questione di Trieste senza peraltro avere diretti ed ineludibili interessi (che superano i rischi) è cosa utopistica e dannosa. Bisogna perciò ragionare in maniera strategica e strutturale per comprendere, in questa enorme partita, qual è la mossa risolutiva.
In questo senso, l’abbandono italiano degli impegni con la Cina potrebbe rivelarsi una vera e propria arma a doppio taglio, poiché equivale a mettere i bastoni tra le ruote all’ascendente nuovo Impero di Mezzo. In questa configurazione, se la situazione dovesse ulteriormente complicarsi, la Cina avrebbe tutto il diritto e l’interesse di porre all’attenzione internazionale la questione della millantata sovranità italiana su Trieste, il che sarebbe un tremendo scacco all’ordine occidentale-atlantista. Una situazione pressoché analoga si verifica nell’utilizzo del porto franco per trasportare armi al fronte ucraino, nonché la presenza sempre più frequente di navi della NATO ormeggiate in un territorio demilitarizzato; tutti pretesti che potrebbero portare, in questo caso la Russia, a rilanciare ufficialmente la questione del latente Territorio Libero.
Permane pur sempre la possibilità, nel caso della Cina, di giungere ad un accordo convenevole per ambo le parti, cosa che equivarrebbe ad un ennesimo congelamento della questione triestina procrastinando nuovamente il ripristino della legalità.
E’ necessario quindi concentrarsi solo ed esclusivamente sulle proprie forze e lottare strenuamente per il rispetto dei propri diritti, il resto (e gli aiuti internazionali) venendo dopo e da sé, conseguendo all’impegno. Vorremmo concludere rimarcando questo spirito con la celebre frase di Che Guevara:
“Non sono un liberatore. I liberatori non esistono. Sono solo i popoli che si liberano da sé”.
NOTE
[1] Vedasi l’articolo: https://www.europeanguanxi.com/post/the-port-of-trieste-into-the-belt-and-road-results-of-an-international-debate
[2] Vedasi lo studio di Francesca Ghiretti (p. 3-4): https://www.iai.it/it/pubblicazioni/liniziativa-belt-and-road-italia-i-porti-genova-e-trieste