Uno dei paraocchi più caratteristici di quest’epoca storica è sicuramente il mito del “progresso”, inteso come corsa scompigliata verso una non meglio precisata “epoca del progresso” che, ad oggi, non è stata ancora raggiunta e mai lo sarà. Questo, in prima istanza per un problema fondamentale legato all’andamento della storia: che, cioè, la rincorsa nel presente dell’avvenire, non può non imprigionare il soggetto o la civiltà stessa in un circolo vizioso per cui la mèta si sposta proporzionalmente ad ogni progresso effettivamente raggiunto. Non è sbagliato in questo quadro considerare l’interpretazione ciclica della storia propria alle antiche civiltà, le quali parlavano perlappunto del succedersi di “cicli” storici. La liberazione dai suddetti cicli è poi il fine della via orientale, in particolar modo nel Buddismo, che contempla la liberazione dal “ciclo delle rinascite” e il conseguente annientamento della legge impersonale del karma.
In secondo luogo, parlare di “corsa verso il progresso” risulta essere una contraddizione in termini, intendendo per “progresso” il mero sviluppo tecnocratico e scientistico, a scapito di tutto ciò che non rientra in queste due categorie. La complessità del reale è fuggevole e non limitata a queste due sfere che sono, se vogliamo, le più infime ed elementari, avendo per base solamente ciò che può essere osservato. Ma già parlare solamente dell’osservabile suscita non pochi problemi epistemologici, ampiamente discussi e trattati dai filosofi di tutti i tempi, senza peraltro giungere ad una soluzione soddisfacente. In linea generale, si può dire che per il pensiero occidentale valga il principio cardine della dialettica hegeliana, per cui: “ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale” – il che vuol dire, che la razionalità è insita nella realtà e si trova in natura. Da ciò Pitagora, per cui “tutto è numero” e la legge divina sul funzionamento delle cose è organica, effettivamente esistente, e la natura le obbedisce. Tutto ciò non vale per il pensiero orientale, che si discosta su tutti i punti. Per i Cinesi, così i numeri, come la geometria, come la legge della causalità altro non sono che forme che pone il nostro intelletto, intendendo con queste spiegare la natura. Un triangolo è un ente della mente, a cui l’intelletto associa le forme che in natura si avvicinano alla forma triangolare, ma non esiste organicamente, in natura non c’è. Allo stesso modo, siamo noi a formalizzare una legge alla quale pare che la natura risponda, legge che non esiste nella realtà, ma solo nella nostra mente, la cui struttura necessita di forme per poter categorizzare il reale. Considerando tutto questo, è ancora possibile ridurre semplicemente la realtà al mero osservabile e fare di questo le fondamenta di ciò che sappiamo sulla natura? Sarebbe tedioso citare la fisica quantistica, che sconfessa spudoratamente, per il mondo subatomico, l’esistenza della causalità, di qualsivoglia legge deterministica, anche l’esistenza di una sostanza elementare che soggiace ai fenomeni – come disse qualcuno, è come se studiando a fondo il mondo subatomico si trovino solo forme di forme di forme ma mai la sostanza.
Posto dunque che la concezione del mondo tipica dell’uomo-massa di oggi è intrinsecamente illusoria, essendo basata su una non meglio precisata conoscenza sensibile, la deriva materialistica e l’idolatria della “scienza” sono lo sviluppo naturale di tutto ciò. Risulta altresì comprensibile la tendenza dell’uomo-massa alla ricerca e alla sperimentazione di sensazioni nuove, mai prima esperite, fini a se stesse e prive di un principio di continuità: sono i fenomeni della droga, della prostituzione, dell’alcoolismo ecc. E’ il paradigma capitalistico dell’usa e getta applicato alla vita ordinaria, depurata da qualsiasi significato superiore, che porta alla mercificazione dell’ordinario e alla repressione dello straordinario, di tutto ciò per cui valga la pena impegnarsi. Se intesa in questi termini, la vittoria del capitalismo è disarmante: esso ha saputo trasformare in merce tutto, incluso il più intimo che prima apparteneva alla sfera personale. Se il romanticismo, inteso come fenomeno storico e non solamente letterario, si proponeva lo scopo di conferire al comune un senso più elevato, nel capitalismo si attua la sua negazione, cioè la trasmutazione del mondo e del sentimento umano in merce. Così il suicidio amoroso del Werther di Goethe o l’amore impossibile del Jacopo Ortis per Teresa e per la sua patria risultano, oggi, vere e proprie scemenze, ridicole corbellerie di gente parassita che non produce nulla, che non vota la propria esistenza ai sacri doveri della fabbrica, dell’impresa, del denaro e del guadagno ad ogni costo.
La riduzione dell’uomo a mezzo funzionale alla produzione fu uno dei risultati della diade capitalistico-comunista che prese piede nel XX secolo, una volta liberata dal fardello degli imperi. Il comunismo, normalmente visto in antitesi al capitalismo, è stato in realtà molto utile allo sviluppo di quest’ultimo per come lo conosciamo: sradicando l’individalità nei gulag, centralizzando il potere su un unico organo – il Partito –, bocciando come “controrivoluzionaria” qualsiasi libera opposizione di pensiero, di fatto pose le basi del liberal-capitalismo di oggi. Contribuì enormemente alla creazione di quel nuovo stadio antropologico impersonale, asessuato, acritico, orientato fedelmente ed unicamente con l’ideocrazia dominante, dominato e contemporaneamente dominatore di altri “compagni” e “compagne”, principale garante dell’ideologia perpetuata, sia essa il comunismo, il liberalismo o il capitalismo. Il risultato dell’”esperimento bolscevico” fu una nevrosi fra la realtà e la controrealtà ideologica, fra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, fra l’homo bolscevicus che doveva essere realizzato e il proletario russo, dedito alla prostituzione e all’alcoolismo. L’edonismo inteso come unica sorgente di “felicità”, assieme all’elargizione dell’assistenza medica, al riconoscimento del diritto formale allo studio e al diploma e alle vacanze estive garantite e scontate – a questo si riduceva la vita del sovietico, cioè ad “un’esistenza aristocratica ma effimera”, come ebbe a scrivere Enzo Betizza. Con il crollo del comunismo, il capitalismo riciclò tutto il lavoro svolto, completandolo aggiungendoci altre “fonti di felicità”, cioè il ciclo consumistico.
Detto questo, ci chiediamo: è questo il progresso tanto agognato? Questo è il risultato della frenetica rincorsa bicentenaria di un’utopia? Certamente si potrebbe obiettare che il progresso tecnico ha sensibilmente prolungato la vita, avendo trovato antidoti a molte delle malattie che una volta risultavano fatali, e sicuramente in questo c’è del vero. Ci chiediamo, però, se sia meglio saper curare la malattia alla meno peggio, magari con l’utilizzo di prodotti industriali, oppure poterla evitare, troncarla sul nascere, come si faceva abitualmente nel mondo delle origini… Inoltre, prendendo per buona quest’obiezione, ci chiediamo se sia veramente un vantaggio poter curare varie malattie al prezzo della perdita di tutti i fondamenti antropologici e storici, della massificazione più totale e della drammatica perdita di senso nelle cose, senso un tempo avvertito immediatamente.