Gentrificazione all’italiana: storia di un fallimento preannunciato

«Gentrificazione» è un neologismo utilizzato per indicare la drastica trasformazione urbanistica, in particolare di immobili storicamente popolari, che vengono trasformati in immobili di lusso, a utilizzo esclusivo del ceto capitalistico e borghese medio-alto. Questo è un fenomeno che, pur radicandosi già nella metà del XX secolo, è venuto a onor delle cronache negli anni Duemila, particolarmente in quelle città che vantano – come Trieste – zone e immobili storici e una periferia peculiare storicamente rurale o comunque « popolare », che viene sistematicamente abusata e utilizzata per la costruzione di case lussuose e assolutamente « aliene » rispetto al resto. E proprio a Trieste abbiamo molti esempi di questa volontà di trasformare l’entroterra – ma anche la città – secondo il modello capitalistico delle città americane: tutto minimalista e funzionale al business, lontano anni luce dall’architettura austriaca come quella per es. di un Max Fabiani. Il risultato è uno sconvolgimento radicale, un pugno nell’occhio, un qualcosa di assolutamente scevro rispetto all’ambiente in cui si trova: e per di più, a utilizzo esclusivo non certo della cittadinanza, ma dei magnati del capitalismo internazionale. Un’identità dalle profonde radici come quella triestina espressasi nel peculiare stile architettonico dei nostri edifici viene così sostituita da anonime strutture che seguono la logica dell’ utilitarismo capitalistico.

E’ d’esempio il folle, illegale e per ora accantonato progetto Portocittà, che comprendeva l’utilizzo della zona del Porto vecchio (Porto franco nord) per realizzare residence con tanto di spa, sala congressi e altre costruzioni del tutto inutili al comune cittadino. Oltre a ciò, c’è Porto San Rocco, realizzato nella seconda metà degli anni Novanta, un progetto di fatto mai sbocciato (considerando i costi di costruzione, che all’epoca superarono i 70 milioni di euro) e del tutto insensato, che vanta anche la presenza di una pericolosa discarica di fanghi nelle collinette artificiali del c.d. “Parco delle Vele”. In ultimo, il coronamento delle speculazioni edilizie della Baia di Sistiana – ovvero Portopiccolo -, che a meno di dieci anni dalla sua inaugurazione ha già dichiarato fallimento (è di questi ultimi mesi la notizia del fallimento dell’azienda che lo gestiva). Tre progetti: uno impossibile da realizzare perché illegale, gli altri due realizzati ma del tutto fallimentari sul piano economico e ambientale. Le ragioni di queste clamorose débâcle pubbliche non sono difficili da identificare: nel caso di Porto San Rocco, è sufficiente guardarsi intorno e constatare la vista mozzafiato, che si affaccia sull’inceneritore e su altri impianti industriali triestini… certamente non la migliore scelta paesaggistica dove realizzare residence turistici. Nel caso di Portopiccolo, invece, le ragioni del fallimento sono da ricercare non tanto nel progetto – che risulta tutto sommato ben strutturato e gradevole alla vista – ma, oltre ai costi, alle poche opportunità che offre. Non offre nulla di esclusivo, che sia prerogativa del posto: si tratta di una delle tante (seppur belle) villeggiature turistiche costiere, sparse in giro per l’Europa. 

Un altro esempio è la vergognosa progressiva gentrificazione di Barcola, una volta casa di vigneti e pescatori che si sta oggi trasformando sempre di più nell’ ideale oasi del liberalismo. Nei ultimi anni questo processo si è notevolmente intensificato.

A chi giova tutto questo? A nessuno, salvo agli speculatori che succhiano i fondi pubblici come sanguisughe. Ma, più oltre queste vedute puramente “pratiche” o, se vogliamo, economicistiche, v’è dell’altro: ovvero il modello del turismo selvaggio globalista; un vizio passato per virtù. Lo sradicamento culturale dei luoghi, la loro sostituzione con villeggiature turistiche (allorché di dubbia utilità), non è sintomo del progresso incombente, ma quello del degrado spirituale. Trasportare orde di turisti – simili alle orde barbariche che hanno annientato Roma – non è valorizzare il luogo: è anzi funzionale alla mera speculazione economica, ovvero al fare profittevole! Questo perché il turismo selvaggio è un elemento alieno, assolutamente non-autoctono, che per tale inquina inevitabilmente quel genius loci a cui si dava in antichità peculiare importanza. Il turista, per sua definizione, è ricollegabile allo straniero biblico, cui bisogna certamente dare massima assistenza e adoperarsi affinché si trovi bene in terra straniera, ma non pretendere da lui che si senta in patria, quando in patria non è. Si addice, al turista, la massima umiltà, apertura e disponibilità ad apprendere usanze e stili di vita per lui inusuali. L’atteggiamento propinato invece dal turismo globalista è esattamente il contrario: la massima arroganza nel pretendere, in terra straniera, la medesima forma mentis della propria patria. Ciò si intravede nei disastri che l’occidentalizzazione forzata dei paesi – poniamo, di quelli del Medio Oriente – ha prodotto: lo sradicamento totale, l’assimilazione globale e, in risposta a ciò, il terrorismo. 

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